Scene da Carmen

Prima della visione dello spettacolo, vi invitiamo a leggere qualche frammento del racconto da cui prende spunto il nostro…

Carmen Ballet flamenco

Padova, Teatro “Ai Colli”, 10 febbraio 2013, ore 21

(da Prosper Mérimée, Carmen,  a cura di Silvia Lorusso, con testo a fronte, Marsilio, 2004)

DESCRIZIONE DI CARMEN

Ebbi allora tutto l’agio di esaminare la mia gitana […]. Dubito molto che la signorina Carmen fosse di razza pura, per lo meno era infinitamente più graziosa rispetto a tutte le altre donne della sua nazione che abbia mai incontrato. Gli Spagnoli dicono che perché una donna sia bella occorre che riunisca trenta sì, o, altrimenti, che la si possa definire con almeno dieci aggettivi applicabili, ciascuno, a tre parti della sua persona. Per esempio deve avere tre cose nere: gli occhi, le palpebre, le sopracciglia; tre fini, le dita, le labbra, i capelli, ecc. […] La mia zingara non pretendeva tanta perfezione. La sua pelle, nonostante fosse liscia, si avvicinava molto al colore del rame. Gli occhi erano allungati, ma mirabilmente tagliati; le labbra un po’ carnose, ma ben disegnate e lasciavano vedere denti più bianchi delle mandorle sgusciate. I capelli, forse un po’ spessi, erano neri con riflessi blu come l’ala di un corvo, lunghi e lucenti. […] Era una bellezza strana e selvaggia, un volto che dapprima lasciava attoniti, ma che non si poteva dimenticare. I suoi occhi soprattutto avevano un’espressione allo stesso tempo voluttuosa e feroce che non ho mai più trovato in alcuno sguardo umano. Occhio da Zingaro, occhio da lupo, è un detto spagnolo che denota un buono spirito d’osservazione. Se non avete il tempo di andare al Jardin des Plantes per studiare lo sguardo di un lupo, osservate il vostro gatto quando punta un passerotto. – Cap. II, pp. 75-77

QUALCHE SCENA

Prima parte

Carmen sul ponte:

Aveva tra i capelli un grosso bouquet di gelsomini, i cui petali, di sera, emanano un odore inebriante. Era vestita con semplicità, forse addirittura poveramente, tutta di nero. – Cap. II, p. 71

Le bagnanti:

A Cordova, all’ora del tramonto, vi è un gran numero di sfaccendati sul viale che costeggia la riva destra del Guadalquivir […] si gode di uno spettacolo che di certo ha il suo merito. Qualche minuto prima dell’angelus, una gran quantità di donne si riunisce sulla riva del fiume, al di sotto del viale che si trova a una certa altezza. Nessun uomo oserebbe unirsi a questa compagnia. Non appena suona l’angelus, si ritiene che sia ormai notte. All’ultimo tocco della campana, tutte le donne si spogliano ed entrano in acqua. Allora sono grida, risate, un chiasso infernale. Dall’alto del viale, gli uomini contemplano le bagnanti, spalancano gli occhi; ma non vedono un granché. Tuttavia, queste forme bianche e vaghe che si disegnano sul cupo azzurro del fiume fanno lavorare gli ingegni poetici e, con un po’ di immaginazione, non è difficile raffigurarsi Diana e le ninfe al bagno, senza dover temere la sorte di Atteone. – Cap. II, p. 69

José alla fabbrica di tabacco:

Sono nato a Elizondo […]. Mi chiamo don José Lizzarrabengoa […] sono Basco e antico cristiano. […] Volevano che diventassi prete. […] Incontrai dei dragoni, e mi arruolai nel reggimento d’Almanza, cavalleria […]. Divenni subito brigadiere, e mi promettevano di promuovermi maresciallo d’alloggio, quando, per mia disgrazia, fui messo di guardia alla manifattura dei tabacchi a Siviglia. […] Stavo facendo una catenina con del filo d’ottone per tenere la spilletta del mio fucile. All’improvviso i compagni dicono: Ecco la campana che suona; le ragazze stanno per tornare al lavoro. […] ci sono almeno quattrocento o cinquecento donne occupate nella manifattura. Sono loro ad arrotolare i sigari in una grande sala, dove gli uomini non entrano senza un permesso […] perché soprattutto le giovani, quando fa caldo, si mettono a loro agio. […] le Andaluse mi facevano paura; non ero ancora pronto per i loro modi: sempre a scherzare, mai una parola seria. Stavo quindi col naso sulla mia catenina, quando sento dei borghesi dire: Ecco la gitanilla! Alzai gli occhi e la vidi. Era un venerdì, e non lo dimenticherò mai. […] Aveva una sottanina rossa molto corta che lasciava scorgere calze di seta bianca con più di un buco, e scarpine di pelle rossa allacciate con nastri color fuoco. Scostava la mantiglia per mostrare le spalle e un grosso bouquet di gaggia che spuntava dalla camicia. Aveva un altro fiore di gaggia all’angolo della bocca, e avanzava ancheggiando come una puledra dell’allevamento di Cordova. Nel mio paese una donna vestita in quella maniera avrebbe obbligato tutti a farsi il segno della croce. A Siviglia, tutti le rivolgevano complimenti spinti per il suo aspetto; a ognuno rispondeva ammiccando, col pugno sull’anca, sfrontata come una vera Zingara qual era. In un primo momento non mi piacque e mi rimisi al lavoro; ma lei, seguendo l’uso delle donne e dei gatti che non vengono mai quando li chiami e che vengono quando non li chiami, mi si fermò davanti e mi rivolse la parola.[…] – Cap. III, pp. 87-91

José raccoglie il fiore:

Prendendo il fiore di gaggia che aveva in bocca, me lo lanciò con un movimento del polso, giusto tra gli occhi. Monsieur, mi fece l’effetto di una pallottola che mi colpiva… Non sapevo dove cacciarmi, restavo immobile come un palo. Quando fu rientrata nella manifattura, vidi il fiore di gaggia caduto a terra, tra i miei piedi; non so cosa mi prese, ma lo raccolsi senza che i miei compagni se ne accorgessero e lo misi accuratamente nella mia giubba. – Cap. III, p. 91

La lite alla manifattura dei tabacchi:

[…] nella grande sala dei sigari vi era una donna assassinata e bisognava mandarvi le guardie. Il maresciallo mi ordinò di prendere due uomini e di andare a vedere. Prendo gli uomini e salgo. Immaginatevi, signore, cosa vedo non appena entro nella sala: trecento donne in camicia, o quasi, tutte che gridavano, urlavano, gesticolavano, facendo un tale baccano da non poter sentire i tuoni di Dio. Da un lato ce n’era una, a terra a gambe all’aria, coperta di sangue, una X sulla faccia appena fatta con due colpi di coltello. Di fronte alla donna ferita, che le migliori della banda soccorrevano, vedo Carmen trattenuta da cinque o sei comari. – Cap. III, p. 93

Arresto di Carmen:

[…] presi Carmen per il braccio […]. Mi lanciò uno sguardo come se mi riconoscesse; ma disse con aria rassegnata: “Andiamo. Dov’è la mia mantiglia?” Se la mise in testa in modo da mostrare uno solo dei suoi grandi occhi, e seguì i miei due uomini, docile come un agnello. […] Dapprincipio la Zingara era stata in silenzio, ma sulla strada del Serpente, […] comincia a lasciar cadere la mantiglia sulle spalle, per mostrarmi il suo visetto adescatore […]. “Lasciatemi fuggire, –  dice, – vi darò un pezzo della bar lachi che vi farà amare da tutte le donne”. La bar lachi, signore, è la calamita con la quale gli Zingari pretendono di poter fare una gran quantità di sortilegi quando si è capaci di utilizzarla. Fatene bere a una donna un pizzico grattugiato in un bicchiere di vino bianco, non vi resiste più. Mentiva, signore, ha sempre mentito. Non so se nella sua vita quella ragazza abbia mai detto una sola parola di verità; ma, quando parlava, le credevo: era più forte di me. – Cap. III, pp. 95, 99

Fuga di Carmen:

[…] Passavamo davanti a una di quelle viuzze strette come ve ne sono tante a Siviglia. All’improvviso Carmen si gira e mi tira un pugno nel petto. Mi lasciai cadere all’indietro volutamente. In un balzo mi scavalca e si mette a correre mostrandoci un paio di gambe! – Cap. III, p. 99

José in prigione:

Attraverso le sbarre della prigione guardavo in strada, e, tra tutte le donne che passavano, non ne vedevo neppure una che valesse quel diavolo di donna. E poi, senza che lo volessi, sentivo il fiore di gaggia che mi aveva gettato e che, ormai secco, continuava a conservare il suo profumo… – Cap. III, p. 101

Di guardia alla festa:

Dopo la cerimonia della degradazione […] fui messo di sentinella alla porta del colonnello. […] Tutti i giovani ufficiali andavano da lui, e molti borghesi, anche donne, attrici, a quel che si diceva. Quanto a me, mi sembrava che tutta la città si fosse data appuntamento alla sua porta per guardarmi. – Cap. III, p. 105

Carmen alla festa:

Questa volta era ornata come un reliquiario, acconciata, agghindata, tutta oro e nastri. Un vestito di lustrini, scarpe blu anch’esse con lustrini, fiori, passamanerie dappertutto. Aveva un tamburello a sonagli in mano. […] Ci scambiammo uno sguardo […]. Gli invitati erano nel patio e, nonostante la folla, attraverso l’inferriata vedevo quasi tutto quello che accadeva. Sentivo le nacchere, i tamburi, le risa e gli applausi; qualche volta riuscivo a scorgere la sua testa quando saltava col tamburello. Inoltre sentivo certe cose che le dicevano gli ufficiali e che mi facevano arrossire.- Cap. III, pp. 105-107

Appuntamento alla strada del Candilejo:

[…] entrò Carmen seguita da un giovane, tenente del nostro reggimento. […] Non potevo fare un passo; ero come paralizzato. L’ufficiale, in collera, vedendo che non me ne ero andato e che non mi ero neppure tolto il berretto, mi prese per il bavero e mi scosse violentemente. […] Estrasse la sua spada e io sfoderai la mia. […] il tenente mi diede un colpo in fronte, […]. Indietreggiai e […] dato che il tenente mi inseguiva, lo puntai con la spada e quello si trafisse. […] Mi portò un mantello a strisce che era andata a cercare non so dove. Mi fece togliere l’uniforme e indossare il mantello sopra la camicia. – Cap. III, pp. 121-123

 Seconda parte

Vita da contrabbandiere:

La vita da contrabbandiere mi piaceva più di quella da soldato; facevo regali a Carmen. Avevo denaro e una donna. […] i miei compagni mi trattavano bene e mi tenevano persino in considerazione. Questo perché avevo ucciso un uomo e tra loro vi era anche chi non aveva una simile impresa sulla coscienza. Ma ciò che mi interessava nella nuova vita, era di vedere spesso Carmen. Si mostrava gentile più che mai; tuttavia, davanti ai compagni non riconosceva di essere la mia donna. – Cap. III, pp. 127-129

 Garcia, il Guercio:

“Stiamo per avere un compagno in più, […] Carmen ha appena fatto uno dei suoi migliori colpi. E’ riuscita a far scappare il suo rom dalla prigione di Tarifa”. […] “Come! suo marito! è dunque sposata?” domandai al capitano. “Sì, – rispose, – a Garcia il Guercio, uno Zingaro furbo quanto lei. […] Vidi ben presto Garcia il Guercio; era sicuramente il mostro più brutto che la Boemia avesse partorito: nero di carnagione e ancora più nero d’animo, il più grande scellerato che abbia mai incontrato in vita mia. Carmen arrivò con lui; e bisognava vedere gli occhi che mi faceva quando davanti a me lo chiamava il suo rom, come pure le sue smorfie quando Garcia girava la testa. – Cap. III, pp. 129-131

 Uccisione di Garcia:

Proposi a Garcia di giocare a carte. Accettò. Alla seconda partita, gli dissi che barava; si mise a ridere. Gli gettai le carte in faccia. Volle prendere la sua spingarda; misi il piede sopra e gli dissi: “Si dice che sai usare il coltello come il miglior jacque di Malaga, vuoi misurarti con me?” […] Avevo assestato due o tre pugni a Garcia. La collera gli aveva dato coraggio; aveva estratto il suo coltello, io il mio. […] Garcia si era già piegato in due come un gatto pronto a lanciarsi su un topo. Teneva il suo cappello con la mano sinistra per parare, il coltello in avanti. E’ la loro guardia andalusa. In quanto a me, mi misi alla maniera navarrese, dritto di fronte a lui, il braccio sinistro alzato, la gamba sinistra in avanti, il coltello lungo la coscia destra. Mi sentivo più forte di un gigante. Si lanciò su di me come un fulmine; girai sul piede sinistro e non trovò più niente davanti a lui; ma io lo colpii alla gola e il coltello entrò così profondamente, che la mia mano era sotto il suo mento. Girai la lama talmente forte da spezzarla. Era finita. La lama uscì dalla piaga espulsa da un fiotto di sangue grosso quanto il braccio. Cadde sul naso rigido come un palo. – Cap. III, pp. 145-147

Lucas, il picador:

Mentre ero nascosto a Granada, vi furono delle corride a cui Carmen andò. Quando tornava, parlava molto di un picador particolarmente abile, di nome Lucas. Sapeva il nome del suo cavallo e quanto gli costava la sua giacca ricamata. […] Chiesi a Carmen come e perché avesse fatto conoscenza col picador. “E’ un giovane col quale si può fare un affare. […] Ha guadagnato 1200 reali alla corrida. Di due cose una: o bisogna avere questo denaro; o, poiché è un buon cavaliere e un tipo coraggioso, lo si può arruolare nella nostra banda”. […] “C’è una festa a Cordova, vado a vederla, poi saprò chi se ne va con del denaro e te lo dirò”. […] Un contadino mi informò che vi erano dei tori a Cordova. Ecco il mio sangue che ribolle e, come un pazzo, parto e vado sul posto. Mi mostrarono Lucas e, sul sedile contro lo steccato, riconobbi Carmen. Mi bastò vederla un minuto per essere sicuro del fatto mio. Lucas col primo toro fece il galante, come avevo previsto. Strappò la coccarda del toro e la portò a Carmen, che subito se la mise tra i capelli. – Cap. III pp. 153-157

 A Gibilterra, con l’ufficiale inglese:

Giunto a Gibilterra, […] misi l’asino in una stalla, e, prendendo le arance, andavo per la città come se volessi venderle […] quando, mentre passeggiavo, in una strada al calar del sole, da una finestra sento una voce di donna che mi dice: “Mercante di arance!…” Alzo la testa e vedo a un balcone Carmen, affacciata con un ufficiale in rosso, spalline d’oro, capelli ricci, aspetto da gran milord. Quanto a lei, era vestita superbamente: uno scialle sulle spalle, un pettine d’oro, tutta in seta; una vera volpe, sempre la stessa! si sbellicava dalle risa. L’Inglese, biascicando lo spagnolo, mi gridò di salire, ché la signora voleva delle arance; e Carmen mi disse in basco: “Sali e non ti sbalordire di nulla” […] “Non sai una parola di spagnolo, non mi conosci”. Poi, volgendosi all’Inglese: “Vi dicevo bene, l’ho immediatamente riconosciuto come Basco; state per sentire di che lingua bizzarra si tratta. Che aria stupida ha, non è vero? Si direbbe un gatto sorpreso in una credenza”. “E tu allora, – le dissi nella mia lingua, – hai l’aria di una sfrontata civetta e ho una gran voglia di sfregiarti il volto davanti al tuo spasimante”. “Il mio spasimante! – disse, – guarda, hai indovinato questo tutto da solo? E sei geloso di questo imbecille? Sei ancora più sciocco di prima delle nostre serate nella strada del Candilejo. Non vedi, stupido che non sei altro, che in questo momento faccio gli affari d’Egitto e nella maniera più brillante? Questa casa è mia, le ghinee del gambero saranno mie; lo meno per il naso; lo condurrò da dove non uscirà mai più”. […] “Che cosa dice?” domandò l’Inglese. “Dice che ha sete e che berrebbe volentieri un sorso”, rispose Carmen. Si rovesciò su un divano scoppiando a ridere per la sua traduzione. […] Anche quell’allampanato dell’Inglese si mise a ridere, come un imbecille qual era, e ordinò che mi portasse da bere. Mentre bevevo, lei disse: “Vedi questo anello che ha al dito? se vuoi, te lo regalerò”. […] Mentre parlavamo […] l’Inglese si alzò, […] e offrì il braccio a Carmen, […]. “Ascolta, – mi disse, – […] Voglio che lui mi porti a Ronda, dove ha una sorella monaca… (Qui ancora risate). Passiamo per un posto che ti farò sapere. Voi saltate su di lui: svaligiato in pochissimo! La cosa migliore sarebbe di tagliargli la gola” […] –  Cap. III, pp. 137-143

 Morte di Carmen:

“Sono stanco di uccidere tutti i tuoi amanti; è te che ucciderò!” […] si mise in testa la mantilla come pronta a partire. Portarono il mio cavallo, montò in groppa e ci allontanammo. “Allora, Carmen mia, – le dissi dopo un po’ di strada, – vuoi seguirmi, non è vero?” “Ti seguirò alla morte, sì, ma non vivrò più con te”. […] Si tolse la mantilla, la gettò ai suoi piedi e si tenne immobile con un pugno sul fianco, guardandomi dritto negli occhi. […] Mi gettai ai suoi piedi, le presi le mani, le bagnai di lacrime. Le ricordai tutti i momenti di felicità che avevamo passato insieme. […] Il furore mi possedeva. Estrassi il mio coltello. […] “Per l’ultima volta, – gridai, – vuoi restare con me!” “No! no! no!” disse battendo il piede. E si tolse dal dito un anello che le avevo regalato e lo gettò tra i cespugli. La colpii due volte. Cadde al secondo colpo senza gridare. Credo ancora di vedere il suo grande occhio nero che mi guardava fisso; quindi si spense e si chiuse. Restai una buona ora annichilito davanti al cadavere. – Cap. III, pp. 157, 161-163

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